Provare innanzitutto ad appropriarsi del luogo dell’esposizione, per andare contro questi luoghi troppo conosciuti, prendere i limiti, i muri, l’altezza del soffitto, le aperture, i passaggi, il pavimento, preferire il poco, lasciare per una volta il vuoto e infine torcere lo spazio come se ruotasse intorno agli oggetti.
Potere dire ‘l’angolo giusto di vista è qui’ e rifiutare alle opere, agli oggetti, alle forme di diventare sculture, al contrario, concedere loro di stare come un paesaggio da contemplare, che non invitino a girarci attorno, a toccarle, né a attraversare fisicamente il loro spazio.
Progetto – costruzione – sistemazione, questo si impone. All’inizio il disegno e comincia la progressione dell’idea. Un motivo ripetuto sulla carta con un tratto senza affettazione e la ricerca ossessiva di una carta un po’ invecchiata che abbia vissuto, sono il fondamento di ogni serie.
È un volume vuoto, forse casa, più sicuramente scatola, mosso da un impulso proprio indecifrabile, ascensione vista dal basso in prospettiva, le lezioni del Rinascimento non devono essere dimenticate. Qui è la ripetizione del motivo che finisce per esaurire la figura lasciando solo un segno.
Eliminare, purificare da ogni dettaglio, togliere ancora, lo spazio deve diventare un campo di tensioni immediato, si pensa al Suprematismo di triangolo blu Rettangolo nero di K. Malevich (1915) la riduzione all’essenziale, forma e colore, è ciò che libera tutta l’energia.
La costruzione trova il passaggio per diventare l’equivalente formale dell’idea, non si limita a materializzarla, attinge dal disegno questa energia. Perché i disegni non sono il semplice accompagnamento dei dispositivi installati dall’artista nello spazio, ma vere matrici dell’integralità dell’opera, cariche di potenziale.
Anche costruite in volume, anche installate nello spazio di percorrenza dell’esposizione, le strutture tridimensionali tornano a una purezza grafica: ‘scatole’ nere, linee dei piedistalli metallici, fili di rame, fili elettrici visibili, capelli. Tra modello e architettura.




La casa ? È un triangolo e un rettangolo. È una forma chiusa, rigida e compatta, senza aperture, opaca a causa degli strati di carbone amalgamati. Nessun riferimento o richiamo all’abitabile, solo un elemento visibile su cui si posa lo sguardo dello spettatore. La forma ci fa dire « casa » e tutto ce ne allontana, dall’opacità alla compattezza priva di aperture, neutralizzata dal multiplo. La casa è infine il modulo base di un linguaggio dello spazio, la prima parola ripetuta di una sintassi le cui frasi inventano, per ogni nuova esposizione, una storia diversa. Il nero è il carbone e il tratto, l’ombra e il volume impenetrabile. Non è solo un colore, ma una materia frutto di un lavoro lento: amalgamare, levigare, incollare di nuovo, avvicinarsi al grado di opacità e all’identico anonimo della forma, dove si abolisce ogni riferimento. La pazienza del nero ricercato.
In contrasto, il bianco dello zinco sorprende. Per la sua rarità intensifica la sua presenza e ricorda che la luce, quella delle lampadine e dei neon, è trattata come materiale nell’opera complessiva di Alain Quesnel.
« L’intensità è silenziosa
La sua immagine non
lo è Amo chi mi abbaglia e poi accentua l’oscurità dentro di me. »
René Char, Rougeur de matinaux, Les matinaux, 1950
Non inganniamoci, il disegno non si rinchiude in un’opposizione meccanica tra la diffrazione del bianco e la retrazione del nero, l’artista gioca liberamente con le combinazioni che consente l’incontro di questi due colori. Si potrebbe dire che la chimica dell’olio di semi di papavero, della pittura, delle mine e delle carte, fa il resto.


I materiali prediletti per le installazioni, poveri o ordinari, accessibili e comuni, come il carbone, lo zinco, il rame, il metallo, rimandano a esperienze elementari: la rugosità e la levigatezza, il caldo e il freddo… Ma, oltre a ciò, attraverso il ricorso concreto all’energia – l’elettricità e la sua conduzione – e alla materia prima – il carbone estratto e trasformato -, ci propone artefatti la cui funzione è la tensione creata tra chi guarda e chi accetta la proposta.
L’austerità e l’ascetismo delle forme, delle disposizioni e degli arrangiamenti spaziali si impongono. Eppure c’è qualcosa che celebra i materiali come il rame, lo zinco, la cera, il carbone, riconoscibile nella raffinata precisione del gesto, lontano da qualsiasi estetizzazione degli elementi estratti dal loro contesto. Se i pezzi diventano inneschi di esperienza o attivano sensazioni sconosciute, forse è perché ognuno riconosce il montante di legno, i fili di rame, il carbone nero, il sacco, la lampadina nuda e, allo stesso tempo, lo scarto, il divario scavato tra l’uso, la funzione, la vita quotidiana, reso materiale da oggetti singolari. Forme che fanno pensare a… ma che non sono…
L’idealità a cui pensava Malevich e che Jean-Christophe Bailly esprime così in L’atelier de l’infini, 30.000 anni di pittura, 2007:
« Questa energia, e il desiderio, attraverso di essa, di toccare uno spazio meno ristretto di quello della vecchia storia dell’uomo posto nell’orizzonte di un mondo di cose. »

Tutto si gioca negli scarti impercettibili, si riconosce una forma, un volume semplice e identificabile, un’idea. La semplicità in apparenza o « A bruit secret » che Marcel Duchamp presenta nel 1916:
« un gomitolo di spago tra due lastre di rame unite da quattro lunghi bulloni. All’interno del gomitolo di spago, Walter Arensberg aggiunse segretamente un piccolo oggetto che produce un rumore quando lo si scuote. E fino a oggi non so di cosa si tratti, né nessuno lo sa, del resto.
Sulle lastre di rame, scrissi tre brevi frasi in cui mancavano qua e là delle lettere come in un’insegna al neon quando una lettera non è illuminata e rende la parola incomprensibile. »
Anne Champigny
Exposition A l’envers de l’endroit – Château de Tours – 2010