Un padiglione espositivo. Tre luoghi. Le imposte sono chiuse e l’illuminazione assente. In ognuna di esse Alain Quesnel ha disposto elementi apparentemente disparati che si allineano, si collegano, si connettono e formano tre variazioni luminose di una cartografia stellare. Singolari manipolazioni elettriche. Figure di costellazioni. In ogni caso, una messa in scena dell’energia. Perché è proprio di energia che ci racconta: aste di rame arcuate su pattini di cemento, cascate di fili elettrici (come fanno le pieghe nella pittura antica), « carri » di legno carbonizzati o levigati fino al bianco (recinti di vetro, minuscole lampadine, neon o cenere), tutto manifesta la circolazione, il flusso, la trasformazione, persino la trasmutazione. I carri mostrano l’errare, segnalano il nomadismo. L’ovatta, essa stessa frutto di una trasformazione, disegna il territorio della mutazione virtuale, prepara il terreno per una potenziale, misteriosa fioritura nelle luci soffuse: un ventre siderale, un cuore di Via Lattea.
Anche se le forme sono allusive, non c’è « naturalismo » nell’opera di Alain Quesnel. Egli rifiuta di utilizzare materiali grezzi che rimanderebbero a una ricerca di origine, a una nostalgia di forze primordiali, o che evocherebbero una messa in scena « povera », rivelando « il segno di un rapporto autentico con il mondo » o una riattivazione dei mezzi di espressione. No. Qui il legno, come la carta, il rame o la lampadina, coesistono piuttosto come sostanze nel senso di Beuys, dove ogni elemento viene usato per la sua vera natura, le sue proprietà intrinseche, la sua complessità percettiva e le sue capacità di interazione con altri elementi.
Così, la carta racchiude in sé al contempo l’uso, l’usura e la memoria. E l’idea di ciclo: si rinasce sempre in modo diverso dalle proprie ceneri. Questi elementi possono ancora essere vissuti come materiali di un campo di esperienze, un laboratorio alla maniera di Zorio, un luogo di collegamenti e di comunicazioni. Un territorio di connivenze.
C’è dell’alchimia in questo lavoro. Ogni stanza del padiglione è abitata da una forza latente con manifestazioni misurate. Rilasciata, liberata nella luce. Trattenuta, distesa, quasi lunare. O alla ricerca della sua strada nei limiti dell’estinzione. Una forza tra eclissi e incandescenza. Secondo il luogo: ad ogni esposizione, gli elementi, pur costanti, permutano e creano nuove catene di relazioni, nuove attrazioni. Secondo l’orientamento. Quest’ultimo può essere cardinale: ogni installazione, finora centrata, assume l’aspetto di un ago magnetico senza tuttavia svolgere tale funzione. Nessun punto è particolarmente indicato, tutto accade tra i materiali, nello stesso allineamento.
Così questa struttura topologica che privilegia il confronto ieratico e il movimento elegante avanti e indietro procede più dalla pittura e dal disegno che dal volume. Si offre alla vista di lato, di fronte o nel corso del nostro movimento. Non penetra mai. In questo senso la nozione di installazione in Alain Quesnel, in un contesto ormai accettato di scomparsa delle categorie, potrebbe corrispondere a questa definizione che fa dell’installazione non solo un metodo che interroga lo spazio tramite il raggruppamento di oggetti, ma anche un metodo che intrattiene relazioni con la pittura: oggetti usciti dal campo pittorico, dalla planità, oggetti non rappresentati ma semplicemente presentati.
Alain Quesnel dispone nello spazio oggetti creati che rivelano le energie e le tensioni presenti nella pittura. Materializza i suoi ritmi e il suo soffio. Fa corpo con il suo dialogo.
È ciò che lo distingue dai suoi predecessori citati sopra. Anche se l’opera più recente rompe con la rettitudine e invita a un percorso più iniziatico, a meandri meno immediatamente decifrabili, dove un rapporto di linearità, successione e concatenazione fonda la relazione tra le cose. Il dispositivo è vicino alla scrittura. Il nostro sguardo funziona come farebbe nella lettura di un testo: segue il tracciato stabilito dall’artista (nell’ultima stanza, si stacca dal pavimento per estendersi al muro). Beuys e Zorio non si collocano nello spazio, ne spingono i limiti, lo moltiplicano. Non lo mostrano, lo agiscono. Sono nella congiunzione e nella realizzazione diretta. Sono scultori.
La scelta qui è del tutto diversa, prende la forma dell’evocazione, richiama il provvisorio e gioca decisamente sugli avatar e le modulazioni della luce. Generata dalle opere, quest’ultima sottomette lo spazio alla discrezione sia attraverso quasi totale cancellazione sia attraverso una presenza riservata. Indica, rivela, isola questi strani assemblaggi, li eleva allo status di punti di riferimento, di segni, di pietre miliari: tre marchi su un passaggio, tre manifestazioni diverse e simili al contempo, la cui ambivalenza (ready-made assistito e artigianato, linea e volume…), l’indeterminatezza e le zone d’ombra (e il vuoto tra di esse) consentono derive e fantasie. Sui sentieri del trasporto.
Alla scoperta di nuove piste, instancabili viaggiatori, la via rimane aperta.
Marie-Luce Thomas – 1993
Exposition Alain Quesnel – Pavillon Charles X – Saint-Cyr-sur-Loire – 1993
